Anch’io rilancia lui, anch’io ne ho abbastanza. Poi mi spiega: è una frase molto semplice ma di estrema
importanza, perché è una frase che ci vietiamo. Ci vietiamo non solo di
pronunciarla, ma per quanto possibile anche di pensarla. Perché se si comincia
a pensare: “ne ho abbastanza”, ci si ritrova molto presto a pensare: “non è
giusto” e “potrei avere un’altra vita”. Ora questi pensieri sono insopportabili.
Se cominci a dirti “non è giusto”, non vivi più. Se cominci a dirti che la vita
potrebbe essere diversa (…) la vita si guasta. “Ne ho abbastanza” e dietro “ne
ho abbastanza” “non è giusto” e dietro “non è giusto”, “la vita potrebbe essere
diversa”, sono pensieri che non portano a nulla. Ciò non toglie che questi
pensieri esistono e non fa nemmeno bene impiegare tutte le proprie energie per
fingere che non esistano. È complicato adeguarsi a questi pensieri.
Il mio augurio è che questo adeguarsi si faccia più facile.
Che riusciamo a pensare e a dire “ne ho abbastanza” quando ne abbiamo
abbastanza davvero e che questo pensiero non ci spaventi. Che significhi
libertà. E che sia solo un punto di partenza. Per superarlo, capire perché
restiamo, valorizzare cosa ci trattiene. Oppure per superarlo e cambiare ciò che possiamo
cambiare.
L'uomo che è misura di tutte le cose, la natura che è principio, il tempo che passa e che ritorna, la verità relativa e quella assoluta che si cerca che non si trova, il desiderio, il piacere, i bisogni, l'analisi di realtà, l'opinione, le parole, il loro significato, la loro ambiguità, i valori, il ragionamento valido quello non valido, la causa e l'effetto, le azioni, l'esistere che cerca un senso, e l'essere, la sostanza, la politica, la famiglia la societá civile lo Stato, il valore della storia, la diversità la differenza la contraddizione, il perchè, il dolore, la morte, l'epochè. La via lunga la via breve, l'interpretazione, la vita, la fatica e la passione.
Alla filosofia, a tutto quello che significa per me. A chi ostinatamente la sceglie e a chi orgogliosamente la pratica.
Guardate questa fotografia. Mi è stata scattata domenica, e
sono giorni che la contemplo. Cerco i dettagli, che espressione ho, come sono
le labbra, cosa dice il mio sguardo. E la guardo così insistentemente per
riuscire a capire cos’avesse nella testa la persona che proprio in quel momento lì, mentre gli stavo parlando, ha spinto il polpastrello sullo schermo del
proprio iphone.
Clic.
Cos’ha visto? Perché in quell’istante? Cosa gli è
arrivato di me? Forse nulla, forse era solo una bella foto, con quei due quadri
alle spalle. O forse tutto, quella che sono io.
È una fotografia, un’altra persona mi ha oggettivato.
Cogliere uno sguardo è accorgersi di essere guardati, diceva Sartre. È lo
sguardo altrui che mi rimanda da me a me stesso. L’altro mi guarda e io divento
l’oggetto che l’altro mi guarda e giudica.
È un esercizio apparentemente molto banale eppure richiede
un grosso sforzo. Riuscire a tirarsi fuori, guardarsi attraverso lo sguardo
altrui, oggettivarsi e regolare la propria emotività.
Quando siamo dentro alle cose, quando lo specchio ci rimanda
il nostro riflesso e non abbiamo la possibilità di uscire dalla percezione che
abbiamo noi di noi stessi, siamo intrappolati.
Io mi guardo, io mi giudico, io mi fotografo, io mi valuto, io
mi commento, io mi riguardo, io mi modifico con gli effetti instagram, io mi
attribuisco valore, io me lo tolgo. E io mi perdo. Avere a che fare con il
proprio io, senza permettere a nessuno di oggettivarci e di guardarci da fuori,
ci costringe a rimanere in una gabbia, in un dialogo solipsistico che è all’origine
dell’incapacità che abbiamo di percorrere la strada della conoscenza di
noi stessi.
Per riuscire a conoscerci davvero, dobbiamo andar fuori da
noi. L’introspezione e l’autovalutazione hanno un grandissimo valore, ma lo
sguardo altrui gioca un ruolo altrettanto importante. E questo non significa
perdersi nel giudizio degli altri e farsi condizionare, ma al contrario riappropriarsi delle proprie
luci e ombre in un gioco continuo tra percezione di sé e percezione che gli
altri hanno di noi.
Tiresia, l’indovino della mitologia greca, disse alla madre
di Narciso che questo suo bellissimo figlio sarebbe diventato vecchio solo se
non avesse conosciuto se stesso. Narciso dopo aver guardato la sua immagine
riflessa se ne innamorò perdutamente e morì in questo rimando tra sé e sé stesso
senza riuscire a uscirne, conoscendo l’immagine che aveva di se stesso, solo e
soltanto quella.
Così come quando ci scattiamo un selfie e ci riguardiamo.
Resta un dialogo interno, uno sguardo interno, niente di più paralizzante. Potrebbe
anche essere un bel rifugio, ma se poi un selfie lo pubblichiamo è perché stiamo
cercando di oggettivarci e di farci guardare. Ma è troppo tardi. Da questo
sguardo, che arriva dopo il nostro, non riceveremo niente indietro.
Passare con il rosso di notte? È uno dei tanti quesiti che pongono un tema universale. Di questo si occupa la nuova disciplina: l'obiettivo non è guarire l'individuo ma offrirgli una prospettiva diversa - di Federico Capitoni, Robinson la Repubblica.
Ils vont
📷
Treno Regionale Roma-Fabriano, ottobre 2017
L'associazione della filosofia alla parola “pratica” ancora sorprende molti, abituati a pensare che la madre di tutte le discipline riguardi la pura speculazione, l'accademia e — nel peggiore dei casi — un mondo teorico, ideale, che non trova alcuna applicazione nella realtà. Quando si parla di pratiche filosofiche è dunque naturale essere pronti a spiegare cosa si intende, non solo in termini concettuali, ma anche professionali, visto che quello del filosofo pratico, per quanto ancora poco diffuso, è un mestiere a tutti gli effetti.
Le pratiche filosofiche sono molteplici, ma possono dividersi in due grandi tronconi: quelle individuali e quelle collettive. Nel primo caso si parla prevalentemente di consulenza filosofica, un dialogo tra un consultante (colui il quale espone un suo problema) e un consulente (il filosofo) che ha l'obiettivo di fare luce sulla questione, senza intenzioni risolutive. Può considerarsi una pratica alternativa, ma non affine, alla psicoterapia, sebbene non vengano messi in campo strumenti o modelli psicologici e non si miri alla soluzione del problema, ma soltanto a escogitare nuovi punti di vista per guardarlo e affrontarlo. Non c'è alcuno scopo terapeutico e non esiste la figura del paziente (tanto meno del malato). Se c'è invece un riferimento filosofico, esso non è una scuola, ma una modalità: quella socratica delle continue interrogazioni e messa in discussione di ogni proposizione. Cogliere in fallo logico l'interlocutore spesso tradisce un suo errato posizionamento rispetto alla questione.
Lo stesso approccio socratico, argomentativo, è alla base anche delle pratiche collettive, un mondo più ampio, fatto di tante attività — caffè filosofici, Philosophy for Children, Philosophy for Community, dialoghi in stile filosofico — tutte accomunate però dal medesimo processo, controllato — non diretto! — dal filosofo professionista che assume il ruolo di facilitatore. Normalmente disposti in circolo, per eliminare ogni gerarchia e per fare in modo che lo spazio vuoto creato al centro sia il luogo neutro delle argomentazioni, i partecipanti — facilitatore incluso — iniziano un dialogo che normalmente scaturisce dalla lettura di un testo non filosofico. Più raramente il tema è già deciso prima di iniziare il dibattito, si preferisce utilizzare un testo perché è interessante anche il processo grazie al quale si arriva all'argomento. I partecipanti fanno osservazioni non sul testo, bensì a partire da questo, il che consente di vedere come in un brano, che pure possiede una tematica centrale, la comunità possa individuare un argomento laterale o non palesemente emergente. E ciò mostra l'inevitabile collegamento di temi anche apparentemente lontani. Il testo serve dunque a scatenare, accendere, la riflessione, che prende corpo attraverso la libera circolazione delle opinioni.
Quel che c'è di filosofico sono la pratica dialettica, l'argomentazione e un processo di astrazione che esercita la mente: si parte sempre da casi particolari per arrivare all'universalizzazione del concetto, per quanto il tempo (raramente si superano le due ore) lo consenta. Nessuno, quando si comincia, lo sa, ma è esattamente quello che succede: è naturale che dall'esperienza di vita del singolo, se sia il caso o meno di passare col semaforo rosso anche alle tre di notte quando non c'è nessuno (e magari neanche le telecamere che controllano, cosa che fa spesso la differenza), si giunga a una riflessione più generale prima sulle regole e poi sul rapporto bene/ male. Se il dialogo naviga da solo, il facilitatore quasi non interviene; è chiamato invece a rilanciare il dialogo e a spostare l'asse su cui il pensiero si è disposto se la discussione si arena.
La pratica non è soltanto nel processo dialogico, ma anche nel coinvolgimento esistenziale. Il tema deve essere sentito, la filosofia diventa pratica se ci riguarda. Se nella consulenza ancora resiste un dualismo (il consultante va dal filosofo e non sa di fare filosofia), nelle pratiche collettive, il partecipante diventa subito filosofo egli stesso, anche perché può affrontare una questione che lo concerne senza però che per lui costituisca un problema da risolvere e che lo fa soffrire. Così si può parlare di giustizia, di identità, di regole, di creatività: parole dalle quali sviscerare i contenuti e le manifestazioni nella vita di tutti i giorni. Nulla impedisce di alzare il livello, se il facilitatore lo ritiene opportuno. Nel caso di una discussione sul rapporto tra egoismo e altruismo, per esempio, normalmente vi sono due opposte fazioni: chi crede nell'altruismo vero, assoluto, e chi pensa che questo si fondi comunque sull'egoismo (impossibilità del dono puro: il dare procura comunque soddisfazione e contentezza). Si possono introdurre allora gli ultimi risultati delle ricerche neuroscientifiche secondo cui quello che chiamiamo egoismo non è altro che uno strumento biologico umano per la salvaguardia della specie e di cui siamo naturalmente dotati. Altrimenti dovremmo sentirci in colpa ogni volta che troviamo parcheggio, dacché lo abbiamo sottratto a chi arriva un secondo dopo di noi… E se ognuno cedesse il parcheggio all'altro, quel posto rimarrebbe sempre libero.
Questo filosofare concerne appunto la vita e non ha alcuna ambizione di addivenire a una qualche verità. E benché viga un atteggiamento logico, non c'è una guerra tra tesi opposte, se ne accettano anche di mediane; non esiste la formale polarizzazione di A e B e il tertium, una volta tanto, è possibile. Chi ha voluto argomentare sulla necessità del vaccino obbligatorio dicendo che chi non si vaccina è un pericolo per gli altri, si è ovviamente visto rispondere, logicamente, che chi è vaccinato è protetto, mentre chi non lo è la pensa esattamente come “l'untore”; dunque l'argomentazione cade. Ma poi la realtà ci dice che ci sono bambini che si vorrebbe vaccinare ma che appartengono a una piccola percentuale di individui clinicamente non vaccinabili e si conviene che l'eccezione va tutelata. Eccezione che in un sistema rigorosamente logico non dovrebbe esistere. La filosofia esce così dall'università e entra nell'esistenza di ognuno. Ciò che conta sono le “buone ragioni”, purché sempre argomentate, più che la logica infallibile. E soprattutto che si pensi e si parli non per sentito dire, per studi o per dogmi di pensiero, bensì con la propria testa. È anche il motivo per cui gli incontri funzionano meglio se svolti tra non studiosi: quelli finirebbero altrimenti per citare le teorie dei grandi pensatori e il dialogo assumerebbe le fattezze del convegno universitario.
Invece l'attività, allenamento del pensiero, trova grande successo tra i normali cittadini, nelle scuole, nelle aziende e anche nelle carceri (un libro di recente uscita per Mursia, Filosofia dentro, racconta di esperienze nei penitenziari), cioè tra persone che senza saperlo sollevano i grandi temi della storia della filosofia: una volta, parlando di pregiudizio, è stato detto da un bambino di undici anni che “per non avere pregiudizio bisognerebbe disporre di un giudizio ‘puro’, senza un'idea che lo precede”, che è esattamente la questione fenomenologica di Cartesio prima e di Husserl poi.
I partecipanti colgono altresì con gioia anche l'aspetto comunitario e sociale degli incontri. La maggior parte di loro confessano che le occasioni per confrontarsi civilmente e mantenere una conversazione a un livello che non sia quello superficiale della chiacchiera sono normalmente scarse. E che si torna a casa stimolati, magari — e per fortuna — con meno certezze, ma con un processo di riflessione ormai innescato che non può far altro che alimentare ulteriori ragionamenti e dialoghi: il motore filosofico è partito.
La filosofia diventa cura, ma non intesa come terapia, bensì come cura di sé, palestra per la mente. Per prendersi cura di sé si può andare a pilates, al cinema, in gelateria e - perché no? - a un dialogo filosofico.
Un aperitivo filosofico è uno spazio di libertà. Di confronto, di dialogo e di scambio.
L’idea arriva da lontano, quando in Francia negli anni ’90 nascevano i primi caffè filosofici. Ci si riuniva in un bar per godere di un momento esclusivo: esercitare la propria mente ad argomentare le proprie idee, a condividerle con altri, a sviluppare definizioni e costruire progetti.
Il 27 maggio cerchiamo di riproporre qualcosa di molto simile. Un aperitivo e non un caffè, ma pur sempre un incontro filosofico.
Non è richiesta nessuna competenza in materia, ma solo il desiderio di ritagliarsi uno spazio per allenare la mente a pensare.
Il tema di questo aperitivo filosofico è l’identità personale. Come si costruisce? Che percorso fa l’io per definirsi? Che priorità abbiamo e come ci determinano?
Tante domande e le risposte di ciascuno di voi. La discussione consisterà in un confronto libero e orizzontale di pensieri, in cui ogni singolo pensiero avrà valore in quanto tale; la sottoscritta Enrica Birardi e Claudia Spinosa, vi “guideranno” in questo “gioco”.
Dopo il lavoro, a fine settimana, in una sospensione di tempo.
Vi aspettiamo!
Per iscrizioni inviare un'email a: labfilosofia@gmail.com Aperitivo + partecipazione all'evento: 15 euro
DOVE E QUANDO: Al “Fabrica”, via G. Savonarola 8, ROMA Sabato 27 maggio, dalle ore 18:00
Ha un certo fascino sapere che oggi, grazie al web, ognuno con il suo commento indignato aggiunge un pezzo e fa risuonare un'eco che si allarga sempre di più.
Che sia chiaro, però, ciò per cui ci indigniamo.
Perchè se ci fa schifo che la tv di Stato (che già chiamarla così a me dà tanto di minculpop) mandi in onda un servizio abominevole, è un conto. Che ci indignino i pregiudizi alla base di quel servizio è un altro. Perchè a questo punto dovrebbero indignarci frasi molto ma molto più piccole. Frasi tipo:
- ma come fa quello a stare con quella, che è così brutta? (con variante: ma come fa quello a stare con quella che è così bella?) - vabbè ma secondo me un uomo a cui non piaccia il calcio ha qualcosa di strano eh - se vai in giro con i capezzoli all'aria, non devi poi lamentarti se attiri battute sconce - sei così bella che cresci un po’ che poi ripasso - a quella un colpo glielo darei, mentre sua sorella fa davvero schifo - io ho dedicato la mia intera vita al lavoro, scegliendo che mia moglie restasse a casa, così poteva accudire i miei figli e accogliermi al rientro; eh lo so, sono scelte, però io amo il mio lavoro - quella è proprio una troia
L'elenco potrebbe continuare, sono tutte frasi sentite con le mie orecchie, dette da uomini e da donne (di destra e di sinistra). Dette in silenzio, lontano dalle telecamere, con un amico, un fratello, un collega. E alcune di queste sono anche “troppo”, ce ne sono alcune molto più sottili, discrete, silenziose, che neanche sembrano pregiudizi e invece lo sono. In una società quantomeno civile, l’etica collettiva dovrebbe rispecchiare una buona parte di moralità personale su certi argomenti, altrimenti è ipocrisia collettiva.
Allora, io direi, anche meno proclami facili da web.
Provvedimenti seri per “la tv di Stato” che manda una tale pattumiera in onda, ma va fatta una considerazione ulteriore. Rai 1 è doppiamente colpevole perché ha legittimato chiunque a indignarsi sul web, gli stessi che continuano a dire frasi stracolme di pregiudizi ogni giorno, nel caldo della loro insignificante vita. E lì non hanno like e commenti dietro cui nascondersi.
E così, la tv di Stato ha fatto una magia: ha mostrato in tv e nascosto sul web tutta la miseria di moltissimi.
Come insegnare ai bambini ad allenare il pensiero?
“(…) Imparando a esercitare la propria razionalità non si risolvono questioni particolari, ma si fa scoprire al bambino che la mente se stimolata può lavorare su qualsiasi cosa abbia davanti a sé. I laboratori di pratica filosofica non insegnano tecniche o soluzioni strutturate, ma si sviluppano con un approccio molto libero e questo i bambini lo sperimentano partecipando, non sentendosi braccati dal “devi far così, perché…” ma scoprendo che possono arrivare a pensare su qualsiasi argomento proposto e trarre conclusioni che possono essere utili in classe, a casa, per strada.” (…)
A cosa serve farsi domande? Perché ci serve conoscere il significato delle parole? Quanto è importante riflettere su ciò che abbiamo attorno e dentro di noi?
Se ci manca la risposta a queste domande, la filosofia ci sa rispondere.
La filosofia è “amore per il pensiero” e studiarla è importante ma lo è ancora di più “praticarla”.
In un laboratorio di pratica filosofia si fa tutto questo, divertendosi. Ci si diverte a scoprire perché, per esempio, parliamo di “amicizia”. Che differenza c’è tra un amico e un altro? E tutti gli altri bambini, chi sono?
Oppure… se siamo fatti come siamo, timidi esuberanti chiacchieroni, come possiamo andare d’accordo con chi abbiamo attorno, se è diverso da noi? E poi perché quando siamo a scuola il tempo scorre lento, mentre quando giochiamo corre velocissimo e quasi ci sembra di perderlo?
Se volete scoprire dentro di voi la risposta a queste domande, basta partecipare ai tre laboratori che vedete nella locandina. Sono invitati tutte le bimbe e tutti i bimbi (8-12 anni).La protagonista sarà Sofia, una bambina convinta che tutti siano filosofi. Vuole aiutarvi a scoprire quanto sia importante farsi e fare le giuste domande, dare un nome alle proprie emozioni, ricercare il significato delle parole, guardare le cose da tanti punti di vista.
Come? Tocca solo scoprirlo. Iscrizioni all'indirizzo: labfilosofia@gmail.com
Facciamo così.
Proviamo a immaginare la nostra esistenza isolata e lontana. Lontana dagli
altri, lontana dai desideri altrui, lontana dalle parole. Muta, isolata,
chiusa. E proviamo a immaginare l’interazione di questa identità. Facile
pensare che sarebbe solo con se stessi. Un’interazione a uno. Io guardo, io
valuto, io giudico. L’altro non esiste, è lontano, è indifferente. La sua
esistenza non mi tocca.
Bene, se questo fosse possibile, cadrebbe uno dei principi
costitutivi del nostro essere uomini: il desiderio di essere riconosciuti. L’idea
che il riconoscimento sia alla base di qualsiasi teoria identitaria si basa sul
presupposto che non possiamo esistere senza l’altro, perché siamo esseri
relazionali e lo siamo perché saremmo assolutamente incapaci di “riconoscerci” da
soli, senza lo sguardo altrui. Chi ci sta di fronte ci restituisce l’immagine
di ciò che siamo e di ciò che non siamo e inizia a tessere una rete, una rete
che col tempo si arricchisce di tanti nodi e tanti fili. È un processo di
costruzione identitaria. Se qualcuno interrompe questo processo e si pone di
fronte a noi in maniera indifferente, ne scaturisce il conflitto, ossia il
desiderio di eliminare colui che non ci riconosce.
Se l’altro non ci restituisce un’immagine e non ci dà la
possibilità di accoglierla, rifiutarla, discuterla, ricrearla, in un intreccio
inesauribile, crolla la relazione e crolla l’identità. È in questa logica, solo
apparentemente complessa, che si innesta il concetto così tanto dilatato di
integrazione.
Il rischio di questa parola è che venga intesa in assonanza
con la sua derivazione etimologica: “integrità”. Se intendiamo l’integrazione solo
come la risultante di un processo rischiamo di esporre questa parola a critiche
già ormai diffuse. Se, invece, l’integrazione viene vissuta essa stessa come
processo, le cose cambiano. E di molto. Come si tesse la maglia dell’identità
grazie all’esistenza dell’altro da noi, così si tesse la rete dell’accoglienza.
L’integrazione è un processo estremamente delicato, che non implica e non deve
implicare l’assimilazione passiva di una cultura a un’altra, la sovrapposizione
di un “volto” su un altro, una fusione asettica e indifferente. L’integrazione è
possibile se avviene un reciproco riconoscimento, complesso e rispettoso dell’alterità.
Una costruzione sociale che sappia dar conto di un equilibrio fragilissimo: io
esisto e vengo nel tuo territorio (nel tuo Paese?) e a te chiedo riconoscimento
e intanto a te lo restituisco. In questo modo quell’irrefrenabile e costitutivo
desiderio di riconoscimento si alimenta e tesse altri fili della rete. Nel
momento in cui viene rifiutata questa logica, in quell’istante la rete
identitaria si rompe, nascono tante singolarità indifferenti (e appiattite) e l’indifferenza
si trasforma in astio (con le sue perverse risultanti sociali).
Sarebbe utopico pensare che io possa scegliere chi è l’altro
che deve riconoscermi. Ma per (ri)conoscerci serve la pluralità, una pluralità
che rispecchi quella che portiamo dentro e che ci costituisce. Provate a
rifiutare l’idea che siamo costituiti da tante parti e che ciascuna parte
definisca la nostra identità così tanto complessa e complicata. Provate a
rifiutare questo e provate a negare la necessità dell’integrazione come
processo dinamico e costruttivo. Vi ritroverete (s)conosciuti. Perché nessuno sarà
disposto più a riconoscervi, se non si sentirà per primo riconosciuto da voi.
E perderete pezzi di identità, della vostra stessa identità.
C'è una poesia molto bella di John Donne che parla d’amore. Lui parla di due innamorati che sono costretti ad allontanarsi, ma io da adolescente mi figuravo l'amore proprio così, come le due gambe di un compasso. Fermezza, certezza, porto sicuro che però non impedisce movimento, cambiamento, vita che scorre e che ti modella.
Questa poesia mi torna in mente proprio alla fine di questo 2016, anno così forte da non riuscire a contenerlo in un solo pensiero. E ad oggi credo che il compasso di John Donne sia una bellissima metafora, che uso qui andando oltre l’amore.
Chè tutti dovremmo avere una gamba ferma, che punta sul foglio, una gamba fatta di qualsiasi cosa che ci tenga ancorati. E poi una gamba mobile, pronta a cambiare, a metter(si) in discussione. E allora il mio augurio di quest'anno è che ciascuno possa scegliere qual è la sua gamba ferma e sappia muovere l'altra senza perdere la prima. Ovunque vada.
Buon 2017 a tutti
Ps. La poesia si chiama A valediction: forbidding mourning e la parte in questione è questa qui, tradotta: (…) le nostre due anime perciò, che sono una, anche se io devo andare, non soffrono in verità una separazione, ma un’espansione, come oro battuto che si allarga aereo / se le nostre anime devono essere due, sono due così come le aste gemelle del compasso sono due, la tua anima il piede fisso, non mostra di muoversi, ma lo fa, se l’altra lo fa. / ed anche se essa sta al centro, quando l’altra gira lontano, essa si piega, e si protende verso l’altra, e diventa eretta, quando ritorna a casa. / così saremo tu ed io, che devo come l’altro piede, correre obliquamente; la tua fermezza rende il mio cerchio perfetto, e mi fa finire, dove io ho avuto inizio.
In coda al supermercato e accanto a me tanti piccoli
peluche.
Ne prendo due, un orsacchiotto e un pinguino. Sono peluche speciali, perché
hanno il cordoncino per attaccarli all'albero di Natale. Subito la mia mente va
a due bimbi speciali ai quali voglio regalarli. Il pinguino per lei, l’orsacchiotto
per lui. Belli, dolcissimi, nero e bianco, diversi come sono loro, penseranno a
me quando li vedranno ogni giorno sull'albero di Natale.
Arriva il mio turno. Portafogli, carta fedeltà e loro. Li mostro al
cassiere, prima che inizi a contare la spesa fatta, proprio per assicurarmeli, “questi
li prendo eh”.
E qui la notizia triste. Il peluche è in omaggio solo se fai
25 euro di spesa.
Il cassiere ci prova, prova a farmene passare uno a
prescindere, ma niente. Inizia a contare. Arrivo a 25 euro, l’orsacchiotto è
con me, ma il pinguino no, non ce la fa. Non arrivo a 50 euro. Ci riprova, ripassa
il peluche, invano.
Allora interviene la gentile signora dietro di me “aspetta,
se li raggiungo io i 25 euro, te lo regalo”.
Niente, 21 euro, mi dispiace.
Allora, con gli occhi luccicanti guardo la ragazza dopo la
signora. Una ragazza sulla trentina. La guardo e le chiedo se vuole regalarmelo
lei.
“Ma devi darle 1,99 euro di differenza se lo prende”, dice
il cassiere
“Certo, ci mancherebbe” rispondo io.
Ce l’ho quasi fatta.
“Ehm no, lo voglio io il piccolo peluche”. La ragazza
trentenne candidamente mi risponde.
È per due bimbi, replico. La ragazza trentenne poggia la
testa sulla sua spalla e mi guarda: “Lo voglio io, mi fa compagnia”, dice. Ed è
lì che penso a quanto può essere triste lei e la sua vita triste. Triste come
questa piccola storia triste.
L’orsacchiotto è qui con me. Il pinguino, rovesciato dietro
il cassiere buono. Dopo aver conosciuto una ragazza innamorata, una signora
compassionevole e una trentenne senza cuore.
Volevo scrivere una favola di Natale. Dovrò aspettare il 25 (in
euro).
Ps. è il primo post non filosofico di questo blog. O forse
no.
Il mio blog compie due anni. Me lo ricorda un’email di Tumblr.
E io mi ricordo di quando una persona mi chiese se fosse più efficace dire “2 anni” o “24 mesi” per rendere meglio l’idea della lunga durata.
È
un po’ una semplificazione, ma per me mostra la misura di come
ciascuno cerchi di gestire con se stesso il tempo che passa.
A dire il vero, spesso ci ritroviamo a rincorrerlo più che a gestirlo. Perché sia fruttuoso, perché abbia un valore, perché
abbia il contorno di un’esistenza definita e riconoscibile. Di quando ti guardi
indietro e pensi di aver saputo riempire il vuoto, perché avesse senso e non ci
fosse spazio per lo smarrimento. E allora corriamo, come unico modo per poter
trattenere ciò che sfugge. Più corri, più riesci a fare di più, più puoi di
più. E più hai di più. Più corri più riesci ad avanzare, a vedere
qualcosa per primo, a mostrarla per primo, a raccogliere consenso per primo. E
in questa velocità, che il tempo dell’oggi un po’ ci impone, ritroviamo il
senso del nostro fare.
“Chiamo questa condizione una forsennata situazione di
stallo. Dobbiamo correre per stare fermi. Ci troviamo su scale mobili che
scendono sempre più rapidamente. Per mantenere il nostro posto dobbiamo correre
in salita.” Così il filosofo tedesco Hartumt Rosa parla del nostro modo sociale
d’esistere.
E va tutto bene, finché questo ritmo frenetico segue il
ritmo delle paure, dei passi falsi, degli errori, delle difficoltà. Non appena
la velocità diventa “distrazione”, ci si perde.
Se questo accade (e accade) l’unico modo per potersi fermare
è cambiare paradigma di visione. Provare a sentire ciò che si vive misurando il
tempo attraverso lo spazio.Resto qui, “sono” qui, in questo punto, preciso e
circoscritto e possiedo il mio tempo perché so “dove” sono. Non più
corro-cerco-trovo-ricerco-ritrovo e così via, ma sento e trovo. Sento e trovo.
“Non attraverso la lentezza, ma con la risonanza. La lentezza
non è un fine in sé e non sempre è auspicabile. Un ottovolante troppo lento
precipita, una connessione internet non abbastanza rapida fa saltare i nervi.
Quando le persone parlano di lentezza, intendono qualcosa di diverso, sognano
un altro modo di essere nel mondo. Vogliono avere la chance di un incontro più
intenso e vivo con coloro con cui hanno a che fare, con i luoghi in cui
soggiornano, con le cose a cui e con cui lavorano. Vogliono entrare in
risonanza, con qualcuno, con un’idea o con una cosa che riesca a toccarci e
muoverci”. Continua Hartmut Rosa.
È questo ciò che è accaduto a me con questo blog. Mi ero
persa e avevo bisogno di ritrovare “il mio tempo”. Riuscire a mettermi in
risonanza con ciò che sentivo importante, con qualcosa che riuscisse a muovermi, tenendomi “ferma”.
Ogni post scritto su questo blog mi è costato tempo, non
ci ho mai messo meno di 2 ore (e per questo spesso ci sono state lunghe pause di
non-scrittura). Mi è costato fatica, la fatica del voler combattere la banalità. Mi è
costato l’ammissione che di quell'argomento non potevo scrivere, perché non ne
sapevo. Mi è costato il riconoscimento dei miei limiti.
Eppure, mi ha fatto “restare”
nel mio spazio, la filosofia. Mi ha aperto a nuove sfide, mi ha permesso di
entrare in angoli sconosciuti.
Ma ciò che più mi ha insegnato è il coraggio di cercare uno spazio nel quale io riuscissi a riconoscermi e la mia frenesia riposarsi.
Ero bambina e questa scena mi torna in mente oggi: “- Liberiamo il villaggio dal mostro! Chi viene con me? - Io io io! - Salveremo i nostri figli e il villaggio rivivrà”
Il diverso, ritenuto diverso, in un castello e i cattivi che lo assalgono per ucciderlo e liberare il villaggio. A Gorino ieri a parti invertite (“la bestia” veniva da fuori, il villaggio era arroccato) è accaduto un po’ questo. Nella realtà, però.
Semplifico ma non banalizzo.
Il diverso viene spesso vissuto come l’altro-da-noi da cui difendersi, per tutelare il proprio spazio vitale. Ogni monade ha il suo e i muri servono a distinguere, differenziare. Come se la propria identità personale venisse definita solo per opposizione: “io sono” in quanto “sono diverso da”. Una delle più facili vie per scappare dal compito più difficile che ci è stato assegnato: convivere con la nostra stessa identità e riconoscerla. Per questo l’altro è da combattere. Perché l’altro è di fronte a noi e può restituirci l’immagine di ciò che non-siamo.
Sarebbe molto meglio se accettassimo che l’altro ci restituisce spesso l’immagine di ciò che siamo. E in certi casi, come a Gorino, l’immagine è estremamente becera.
E allora penso ai bambini e al loro sguardo sugli adulti. Chissà se qualche abitante del “villaggio” di Goro ha fatto credere stasera al proprio figlio, rimboccandogli le coperte, di essere in una favola con dei mostri da sconfiggere. Rabbrividisco e confido nel loro sguardo. E che sappiano rispondere al proprio padre: papà io “la bestia” non la voglio uccidere.
‘Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se i genitori hanno delle attese sui figli, i figli avranno dei destini e solitamente assai infelici. Nessuna regola comportamentale può compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la particolarità reale del figlio aldilà di ogni sua rappresentazione ideale.’ M. Recalcati
Buon anno scolastico ai bimbi e ai ragazzi. Ma anche ai loro genitori e ai loro insegnanti, che sappiano tirar fuori quella particolarità.
Mi piace quando due persone si incontrano e si scambiano
idee. Mi piace perché sono una strenua sostenitrice che solo dal confronto di
pensieri diversi (e anche divergenti) possa nascere qualcosa di fruttuoso. Mi
piace la pluralità di menti e di voci, mi piace anche la difesa del proprio
pensiero, se argomentata. Mi piace un po’ meno chi si irrigidisce sulle sue
posizioni senza ascoltare l’altro, non mi piace per niente chi scambia una
battaglia di diritti per un confronto di idee.
Quello che sta accadendo in Parlamento sulla questione delle
unioni civili e della stepchild adoption è sulla bocca di chiunque abbia un po’
di senso civico. Il nodo della questione, ormai si sa, è l’adozione di un
bambino da parte di una coppia gay. E di articoli ce ne sono tanti, di parole
se ne sono spese tante, ma dopo aver ricevuto un sms (ebbene sì, un whatsapp) con un brano attribuito a Oriana
Fallaci contro le adozioni gay, non ho resistito alla tentazione di scrivere,
di parlarne.
Perché per parlare di legge di natura e legge di vita
occorre essere cauti. Una legge naturale è certamente il metodo riproduttivo
sesso maschile-sesso femminile, ma saremmo certamente in grado di dire che
nella nostra vita seguiamo le “leggi naturali”? Basta fermarsi a riflettere un
attimo sulla vita di tutti i giorni e a cosa ci sia di “naturale” in ciò che
facciamo. Tutto ha una sovrastruttura etica oppure una sovrastruttura tecnica. E’
naturale invecchiare e avere le rughe, non è naturale correggere i difetti con
la liposuzione; è naturale che delle cellule si ammalino e sviluppino un
cancro, non è naturale cercare di bloccare lo sviluppo della malattia; è
naturale morire quando il corpo si è ormai consumato, non è naturale riempirlo
di farmaci pur di tenerlo in vita (in stato vegetativo). E certamente esistono
coloro che sono contrari anche a queste “distorsioni” in nome della Legge di
Natura, ma ciò che più conta è essere capaci di distinguere la natura dalla
morale personale, dalle abitudini, dalla religione. La contrarietà alle adozioni
gay si basa su un principio che non ha nulla a che vedere con la natura ma che
riguarda il sistema etico della nostra società: il sistema riproduttivo è
certamente un sistema naturale perché servono un seme e un ovulo per far
nascere un bambino e nessuno lo mette in discussione, ma il sistema “famiglia”
non è certamente un principio naturale. Non si parla “naturalmente” di
famiglia, siamo noi che attribuiamo alla famiglia una determinata connotazione.
Come diceva Hegel, la famiglia è il primo momento dell’eticità, cioè della
condivisione oggettiva di valori morali. Contiene il momento naturale, ma lo supera. Tralasciando la ben più articolata argomentazione
del filosofo, lo cito soltanto per
evidenziare che la famiglia come entità sociale è una costruzione etica, quindi
nostra, dell’uomo, membro di una società; non è naturale e può essere messa in
discussione, al pari di qualsiasi altra evoluzione etica.
Entrando poi nel merito di questa costruzione etica, ci si è
chiesti davvero cosa rende una famiglia, “una famiglia”? Cosa serve perché un
figlio cresca “sano”? Si potrebbe davvero dire che un figlio basta che venga
cresciuto da una mamma e da un papà, allora sia “sano”? Io avrei una marea di
esempi che potrebbero confutare questa teoria. Forse perché, la crescita perlomeno
equilibrata di un figlio non dipende dai genitali dei genitori ma dall’apparato valoriale che viene trasmesso. E meraviglia delle meraviglie, il bagaglio
valoriale di un omosessuale è assolutamente identico al bagaglio valoriale di
un eterosessuale, in quanto esseri umani (cresciuti con certezze dubbi e paure
di tutti). Umani troppo umani, direbbe Nietzsche. E da umani troppo umani noi
ragioniamo, viviamo, ci innamoriamo, costruiamo contesti sociali più o meno
evoluti.
Non c’è nessuna natura che detti leggi e il cattolicesimo
stesso facendo del sesso un meccanismo puramente riproduttivo si attiene a una
legge naturale così “non umana” che qualsiasi sua posizione contro gli
omosessuali viene a cadere data la sua premessa così fragile.
Infine, per poter veramente discutere con qualcuno di
qualcosa, sarebbe opportuno partire dalla stessa condizione di libertà. Io
ritengo che mio figlio sia più intelligente del tuo e possiamo confrontarci
(ammesso che sia un confronto sensato, ma scommetto che c’è qualcuno che
riuscirebbe anche a farlo) se però anche la persona con cui parli è “genitore”.
Oriana Fallaci pare chiedesse: “Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali
(maschi o femmine) chiede d'adottare un bambino?” Io inverto la domanda. Con
quale diritto gli eterosessuali possono impedire a un omosessuale di
riconoscere legittimamente un figlio come suo? Davvero possiamo arrogarci il
diritto di stabilire chi è idoneo a essere padre o madre? E in qualità di cosa?
In qualità di uomini perfetti? E chi ce la riconosce questa perfezione?
E’ una disparità di posizioni inaccettabile perché se nel
confronto c’è una disparità di libertà personale, il confronto si annulla da
sé.
E’ bello avere opinioni diverse, ma partendo da condizioni
di parità, di uguaglianza. Chi non è d’accordo con le adozioni gay rimanga pure
contrario. L’importante è che lo stesso riconoscimento e la stessa
legittimazione sociale siano dati a chi si ritiene d’accordo.
A quel punto ci si può trovare attorno a un tavolo, tirar
fuori l’intellettuale preferito che dice meglio di chiunque altro “esattamente
quello che voglio dire io!”, ritenere la propria argomentazione la migliore del mondo, urlare,
sbattere i pugni sul tavolo, dialogare con serenità o andare a casa infuriati. E
davvero, così, possiamo confrontare le nostre idee anche il giorno dopo e il
giorno dopo ancora. All’infinito. Ma
uguali, a parità di diritti.
Quando lo
sguardo si sofferma su una lettera piuttosto che su una parola, oppure su una
parola piuttosto che su una frase e così via, sapete continuare voi. Un
dettaglio, la parte di un tutto. Un piccolo (o grande) segmento di qualcosa di
infinito.
Quando a scuola mi spiegarono che unalinea retta è un insieme
infinito di segmenti, mi sono da subito chiesta per quale motivo bisognasse
specificarlo. Voglio dire, la linea retta è così bella. “Una linea retta
infinita”, che meraviglia scandire queste parole, danno respiro e prospettiva. Andare
a segmentarla mi sembrava una crudeltà. Significava spezzettarla, farle perdere
la sua armonia, la sua bellezza. Ma niente da fare, la definizione era quella e
da lì, da quella primissima lezione di matematica ho dovuto per forza
approcciarmi ai segmenti.
Crescendo ho scoperto che di linee rette ne esistono
tantissime e che noi siamo una linea retta composta di tanti segmenti. Anzi,
peggio. Una linea retta finita. E in qualsiasi momento della nostra vita
cerchiamo di immaginare di essere infiniti e unitari e invece ci ritroviamo
finiti e segmentati. Per evitare di impazzire ho pensato che l’unico modo per
uscire da questa impasse è cercare il buon dio in questi segmenti. Valorizzarli,
valorizzarne i confini, i limiti. In alcuni segmenti non si sta neanche comodissimi,
a volte sono anche un po’ angusti. Però starci dentro, camminare anche un po’
in circolo, guardare ogni puntino di quel segmento, ti fa capire che sei lì, in
quello spazietto finito e che in fondo, non si sta così male.
Perché nella
rincorsa su una linea retta infinita potrebbe accadere di rincorrere qualcosa
di irraggiungibile, invece nella corsetta in un segmento forse si riesce a
individuare l’obiettivo, a osservarlo e a prendersene cura. E una volta che
questo passaggio è davvero concluso, si può saltare sul secondo segmento. Anche
Giordano Bruno, oltre alla mia maestra di matematica, la pensava così. Vedeva l’universo
infinito composto di mondi innumerevoli, ma non poteva dirlo totalmente
infinito perché ciascuno di questi mondi è finito. E anche lui ci dice che l’infinito
non ci appartiene, come non ci appartiene l’infinita perfezione.Possiamo
solamente curarci dei nostri segmenti e renderli perfetti nella loro
imperfezione, accettando che questa sia inevitabile.
“Distaccarsi dalla
potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non
esiste ma che potrebbe esistere solo accettando dei limiti e delle regole”. Questo
pare sia il momento decisivo per lo scrittore, per Calvino. Secondo me vale per
la vita di ciascuno di noi.
Io sto provando a rinunciare al fascino della linea
retta e a sposare i suoi segmenti limitati e regolati. Penso al tutto solo per avere una visione d'insieme e tenere legate tra loro alcune parti. L’unica fuga a questa contingenza è che piuttosto che immaginare l’infinito, penso al segmento
successivo. Ma questa è un’altra storia.
Siamo stati abituati male da bambini, quando in classe la
maestra ci obbligava al gioco del silenzio. Allora tutti dovevano tacere e chi
parlava era punito. E siamo stati abituati male perché ci è stata consegnata l’idea
del silenzio come un’imposizione e non come una scelta. Come se l’unico
silenzio degno di questo nome fosse quello: l’assenza di parole per rimettere
ordine.
Si cresce spesso ritenendo il silenzio l’origine dell’incomunicabilità,
con l’idea che il tacere sia la via per allontanare l’altro e allontanarsi; il
tacere come via di fuga, come unico espediente per mollare le armi. Come dice
Jaspers, c’èil silenzio di colui che “non ha nulla da dire” e quello di chi è
giunto “ai confini del dicibile”. Il silenzio, però, nel corso della vita assume forme prima sconosciute e alcune di queste non sono affatto sinonimo di
incomunicabilità, ma anzi si sostituiscono alle parole, riuscendo ad essere
anche più efficaci.
Come dice il filosofo francese Lavelle: “Vi sono tutte le
forme possibili di silenzio. C’è un silenzio di chiusura, un silenzio di
riservatezza, un silenzio di mortificazione, un silenzio di collera, un
silenzio di rancore. Ma c’è anche un silenzio dell’accettazione, un silenzio
della promessa, un silenzio di donazione, un silenzio del possesso. C’è un
silenzio che porta il peso di tutti i ricordi senza evocarne nessuno, un
silenzio che prende in esame tutte le possibilità senza preferirne nessuna.
C’è un silenzio pesante che mi opprime in tal modo che la più piccola parola sarebbe per me una liberazione, c’è un silenzio fragile di cui temo la rottura, c’è un silenzio in cui ringhia una ostilità irritata dal non trovare mezzi abbastanza forti per manifestarsi, c’è un silenzio dell’amicizia piena, felice di aver superato tutte le parole e di averle rese inutili.”
Esiste,
quindi, il silenzio del non avere più niente da dire, ma esiste anche il
silenzio dell’implicito, cioè di ciò che vogliamo dire non dicendolo esplicitamente, esiste il silenzio delle parole ma il gran rumore dei pensieri,
esiste il silenzio della mancanza (di qualcosa o di qualcuno) e della memoria; esiste il
silenzio che si sceglie al termine di un conflitto. Esiste il silenzio del
rifiuto volontario di comunicare con l’altro o dell’incapacità di farlo; il silenzio
che scegliamo per raccogliere i pensieri ed esiste quel prezioso silenzio che serve
a selezionare con cura le parole migliori da dire o da non dire, come se il
silenzio fosse un setaccio.
Esistono
tante forme di silenzio, dunque. E se capita che il silenzio faccia paura,
come per tutte le cose vale il principio di polarità: ogni cosa ha il suo
rovescio e si può passare dal positivo al negativo (e viceversa) tutte le volte
che lo si vuole. Basta vedere i concetti da più punti di vista e volerli maneggiare
tutti. Basta voler cambiare la personale prospettiva sulle cose. Basta
consapevolezza, ragionamento e un po’ di coraggio.
“Nel campo delle scienze sociali
lo studio della felicità consiste semplicemente nel chiedere alle persone se
sono felici. Non si vuole stabilire cos’è la felicità – questione innegabilmente
complessa – ma solo sapere se le persone sono felici.” - pag. 42
Internazionale 1127 | 6 novembre 2015
Nel rispetto delle competenze e
dei campi di indagine, la sociologia e le scienze economiche ricercano il
livello medio della felicità. La filosofia, invece, si chiede cosa sia e il τί ἐστί
(il che cos’è, appunto) rappresenta il presupposto ineliminabile di
qualsiasi analisi. Cos’è la felicità per ciascun individuo? Cos’è per il senso
comune? Parlare di soddisfazione esaurisce la complessità del concetto? “Sicurezza
economica, accesso all'assistenza sanitaria e dignità” sono principi
determinanti condivisi da tutti?
Un laboratorio di consulenza
filosofica sul tema della felicità farebbe questo, indagherebbe il concetto e
le sue contraddizioni attraverso il pensiero di ciascuno, favorirebbe il confronto
tra le idee, permetterebbe di acquisire una maggiore consapevolezza del proprio
modo di vivere e agevolerebbe l’intesa comunitaria.
“A cosa stai pensando?” “Sto immaginando il mio passato”.
Un bambino di quinta elementare durante un laboratorio
filosofico ha detto proprio così, che il passato si può immaginare.
Da tradizione filosofica ciò che hanno in comune memoria e
immaginazione è solo la presenza dell’assente, ma la prima ha a che fare con la
verità, la seconda con la finzione. Da un lato si può (e in certi casi, si deve)
ricordare ciò che è accaduto per coltivare la memoria personale e collettiva,
per ricostruire i pezzi della storia e di una storia; dall’altro si può (e a
volte si deve, sì, si deve) immaginare cosa ne potrà essere di noi, come
vorremmo costruire il nostro futuro, come muovere il passo successivo e lo si
può fare senza necessarie pretese veritative (perché ben diverso è l’immaginare
dal progettare).
In cosa consiste quindi l’immaginazione del passato? Il
bambino dai capelli ricci dice di immaginare il passato quando sopraggiunge un
vuoto di memoria e piuttosto che lasciare il vuoto, lo colma inventando
qualcosa (e magari convincendosi anche che sia accaduto). È davvero possibile?
I Greci usavano due parole per dire “ricordo”: mneme e
anamnesis. Il primo è il ricordo come ciò che appare, quasi passivamente, come
un’affezione. Il secondo è il ricordo che ognuno di noi cerca nella mente.
Allora, forse, l’immaginazione del passato riguarda solo questa seconda forma
di ricordo, quando cerchiamo nella nostra memoria qualcosa e, in mancanza di un
ricordo vivo, ci sovrapponiamo qualcos’altro. Tanto chi può verificarne la veridicità?
Nessuno. E forse non è nemmeno utile. Perché se mai accadesse davvero di
riempire un vuoto di memoria immaginando qualcosa che non è successo, questo
avrebbe solo una funzione consolatoria.
Ma questa è probabilmente una prerogativa dei bambini. Più
si cresce più l’immaginazione comincia a perdere vigore, figuriamoci se
dovessimo metterla a servizio di un ricordo.
Crearsi un’immagine di qualcosa che deve ancora accadere può
servire a domare la fantasia, a mettere in ordine i pensieri, a controllare l’infinità
di immagini possibili.
Crearsi un’immagine di qualcosa che è già accaduto
potrebbe servire a domare la nostalgia di ciò che è stato, a rimodellare le
scelte, a trasformarle nel ricordo, dato che nella realtà ciò che è stato non è
più modificabile.
I bambini non si rassegnano all’irreversibile. E gli adulti?
LABORATORI FILOSOFICI A LA FIERA DELLE PAROLE 2015 - PADOVA
Tre laboratori per classi IV e V elementare in due scuole
primarie e un caffè filosofico nella sala verde dello storico Caffè Pedrocchi.
Dal 6 all’11 ottobre 2015 Padova ospita la 9° edizione della
Fiera delle Parole, il festival letterario che per cinque giorni fa di Padova
la capitale della cultura grazie agli oltre 170 incontri con i nomi più
importanti della letteratura, del cinema, della musica, dell’arte e del giornalismo,
italiani e stranieri.
C'è
un ponte che collega Ferragosto a Natale, ce n'è un altro che
collega le ferie al lavoro e il lavoro alle ferie. C'è un ponte tra
la gioia dell'inizio e la tristezza della fine o reversibilmente tra
la tristezza dell'inizio e la gioia della fine.
Un ponte. C'è sempre
un ponte che mette in relazione lo start e l'end. Poi si scende, si
percorre altra strada e si risale su un altro ponte. E vale così per
tutto. Ponti che non sono altro che passaggi di tempo. E ora è quasi
un tempo a metà, siamo fermi a metà del ponte. L'estate sta per
finire, c'è chi ha completato le sue vacanze e chi le sta per
completare.
Sul web hanno spopolato foto di luoghi magici, nella gara di
ogni estate a fare la foto al luogo più figo perché nessun altro
sarà più figo di quello, all'acqua più limpida perché
nessun'altra sarà più limpida di quella.
È bello seguire il
passaggio delle stagioni, così. Guardare i ponti di tutti e chiedersi quanto uno
resti sul suo. Quanto si rende conto che lo sia, quanto in
fretta corre dal suo inizio alla sua fine. E ci sono varie categorie
di umano: chi comincia qualcosa pensando già alla sua fine, chi
attraversa il ponte e indugia a ogni passo, chi decide di cambiare
programma e piuttosto che continuare ad andare avanti torna indietro,
chi porta la noia a braccetto e cerca di attraversare il suo ponte il
più velocemente possibile. Ogni individuo ha la sua modalità di
azione e di percorrere i suoi passaggi. E l'attraversamento tocca a
tutti, se partiamo dal presupposto che ingannare il tempo,
illudendoci di fermarlo, è impossibile.
E allora fine agosto si
avvicina e ognuno è al suo punto di attraversamento, fa un bel
bilancio e guarda oltre. Scrive Galimberti che “se fossimo
chiusi nell'attualità del puro presente senza ritenzione del passato
e senza protensione sul futuro, anche la presenza perderebbe per noi
ogni fisionomia e diverrebbe insignificante”. Uno sguardo alla
partenza e uno al traguardo è inevitabile, bilanciare questi sguardi
è la difficoltà del camminare.
E allora adesso che siamo verso la
fine di agosto e il ponte chiamato vacanza per molti sta per
terminare, cerchiamo di bilanciare questo sguardo e se il carpe diem
ci suona scontato e banale (se non addirittura contestabile), che almeno ci guidi l'idea che i ponti
finiscono e che se non li attraversiamo bene, è come non averli mai
attraversati.
Se ti tagliassero a pezzetti, il
vento li raccoglierebbe. E avrebbe un gran da fare.
Potrebbe accadere che un giorno
perdi un pezzo, un giorno due, un altro giorno ne perdi tre, cinque, dieci. E a
volte va proprio così. La tua identità si fa in mille, non sai più chi sei, da
dove vieni e chi hai attorno. Cosa significa poggiare i piedi per terra.
Potrebbe accadere che un giorno
perdi un pezzo, un giorno due, un altro giorno ne perdi tre, cinque, dieci. E a
volte va proprio così. E il vento deve essere un maestrale molto forte per
riuscire a raccoglierli tutti, metterli in un angolino, formare un mucchio. Un
bel mucchio di pezzi di te.
Ma potrebbe accadere in un giorno
molto più buio di perdere tanti pezzi, di perderli tutti.
Com’è accaduto il 2 agosto 1980.
85 vittime della Strage di Bologna
li hanno persi tutti. Si è fermato anche il vento quel giorno, come il tempo
dell’orologio, alle 10:25.
Il passato che era stato non era
già più perché si è trasformato in un presente che è morto lì tra le macerie e
il suo divenire si è bloccato, rinchiuso in un futuro inesistente. Il futuro
non esiste mai, ma lì in quell’attimo non esisteva neanche la sua idea. Le tre
dimensioni temporali passato-presente-futuro assorbite nello scoppio di una
bomba, diventate un’unica dimensione temporale e nello stesso istante frantumate
e disperse tra polvere e sangue. E tanti infiniti pezzi sparsi ovunque.
Dopo questo attimo eterno, la
città di Bologna ha cominciato a mobilitarsi e a diventare vento. Ha cominciato
a raccogliere i pezzi, uno a uno, con le mani nude nel dolore. Ha cominciato a
narrare la storia di quel giorno.
E così per 35 anni,
instancabilmente.
Noi familiari, le Associazioni, i
cittadini. Tutti a farsi vento. Per raccogliere i pezzi, raggrupparli in un
mucchio e trasformali in memoria.
La memoria serve a ricostituire
la catena interrotta del tempo, affinché l’accaduto di quel giorno divenuto
passato possa essere interpretato in forza del presente e avere un'utilità per
quello stesso presente che diventa futuro. Non basta ricordare e avere una
qualche vaga idea di cosa sia accaduto quel giorno e cosa stava accadendo in
quegli anni in Italia, come se fosse semplice erudizione da storia che si
studia in un manuale.
Bisogna metterci le mani nude,
bisogna coltivare la memoria per poter ricollocare quella storia nell’oggi.
L’utilità della memoria è proprio questa: evitare che la storia sia semplice
ricordo.
La storia di quella strage (e di
tutte le stragi affini) deve essere carne viva ancora oggi, deve spiegare a chi
non l’ha vissuta cosa voglia dire frantumare in mille pezzi 85 identità in nome
di “una destabilizzazione della struttura civile del paese” così come voleva il
terrorismo nero in quegli anni.
Coltivare la memoria significa
trasformare la storia in presente e azione, significa restituire la vita a chi
quel giorno l’ha persa. La distanza temporale permette di analizzare ciò che è
accaduto in modo critico e questa analisi critica da diffondere a chiunque non
è altro che una terapeutica del dolore. Terapeutica secondaria, s’intende.
Perché la primaria sarebbe riuscire a ottenere la verità.
Quella del 2 agosto è una strage neofascista
impunita, con gli esecutori Francesca Mambro e Giusva Fioravanti condannati e
ora liberi e Luigi Ciavardini in semi libertà. Con mandanti inesistenti. Tutto
corredato da processi lenti e infimi perché inquinati da depistaggi continui.
35 anni, oggi, senza alcuna
verità. La ricostruzione della memoria chiede alla storia di farsi narrazione e
insegnamento. Non a caso il vento continua a soffiare: la città di Bologna
continua a mettere insieme i pezzi, noi familiari continuiamo il lavoro di
artigianato interiore e collettivo, dichiariamo continuamente quanto la
conservazione della memoria sia contemporaneamente qualcosa di individuale e
collettivo. E la società deve farsene carico. Ricordare, narrare, raccogliere i
pezzi e fare rete di memoria, ricostruire.
Tra le mani abbiamo ancora tanti
pezzi e quelli troppo piccoli (cioè troppo grandi) restano sospesi nel vuoto,
non si ammucchiano. Un vuoto troppo largo, troppo alto, troppo profondo. E come
in poche altre occasioni, questa volta il vuoto ha una forma: la forma imprecisa
della crepa della sala d’attesa della stazione. C’è chi la conosce bene, chi ci
passa accanto e la nota appena, chi la porta dentro di sé, chi la indica, chi
ci guarda dentro. Ma resta lì perché serve proprio a questo: a guardare dentro
al dolore e a capire perché è importante continuare a essere vento.
Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia, il destino di Europa. (…)
L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato. Tutti miti —diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene — l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico-finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso (magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire. L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale, e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo,e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso, valore e fine di una comunità.”
Guardare le cose da un’altra prospettiva. Mettersi a testa
in giù, camminare a destra se si è sempre camminato a sinistra, cambiare la
solita mano mentre si mangia. Provare a fare qualcosa di diverso (che suona
come una citazione).
È un allenamento che dovremmo fare. Allenarci a guardare le
cose da vari punti di vista, nella profonda convinzione che i vari punti di
vista siano fuori e dentro: tutte le cose hanno mille facce e noi stessi
abbiamo mille facce. E alcune non le conosciamo neanche. Immaginate di
analizzare un problema attraverso una faccia a voi sconosciuta. Lo analizzerà
certamente in maniera diversa da come avete sempre fatto voi, tradizionalmente.
Tutto sta nel capire come fare.
Un modo efficace
credo sia questo: essere ironici.
Rorty, un filosofo contemporaneo, fa dell’ironia una vera e
propria filosofia. L’ironico è “colui che nutre continui dubbi sul suo
vocabolario perché è colpito dal vocabolario altrui, è consapevole che i suoi
dubbi non possono essere né confermati né sciolti da argomenti formulati da lui,
non ritiene che il suo vocabolario sia più vicino degli altri alla realtà.” L’ironico non è capace di prendersi sempre sul serio perché è sempre
consapevole della sua contingenza e della contingenza del suo vocabolario. L’ironico
sa di essere precario, insomma. Mutevole. E lo sa fino a farne un punto di
forza.
Ecco, forse la consapevolezza di essere uno nessuno e
centomila, la consapevolezza di esser contingenti e di esserlo tutti,
permetterebbe di non ricercare più un’unica verità assoluta (e ipostatizzata, si dice in filosofia) ma
piuttosto dar maggiore valore alle proprie valutazioni della realtà e a quelle
altrui. E va bene sì difendere le proprie posizioni e difenderle anche
strenuamente (il web in queste settimane ha dato il meglio di sé tra gli
imbecilli di Eco e il ritorno della Cristoforetti), ma se prendessimo delle
singole problematiche oppure degli argomenti che si affrontano attorno a noi, a
nostra libera scelta, e provassimo a guardare le cose da una prospettiva diversa
rispetto alla solita, secondo me ne guadagneremmo.
Basterebbe essere ironici,
appunto. Per allargare la mente. I social network avrebbero dovuto
fare questo: allenare all'ironia. Renderci consapevoli della nostra contingenza, permetterci di scambiare opinioni in maniera costruttiva,
riuscendo a mischiare le nostre opinioni
a quelle altrui in vista di un miglioramento costruttivo. Ad oggi,
invece, accade l’esatto contrario (almeno nella maggior parte dei casi). Fermi
e bloccati nelle nostre posizioni e nel nostro angolo di visuale.
Se nei social non ci riusciamo, poco male. Nella vita,
invece, beh. Fate voi.
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